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DUE LEGGENDE METROPOLITANE SUL MENU ENGINEERING CHE GLI SCRIBACCHINI DEL WEB CONTINUANO A SPACCIARE PER VERE

Peccherò di presunzione, e mi sto già odiando per questo, ma credo sia giunta l’ora di mettere i puntini sulle i: il Menu Engineering, in Italia, l’ho sdoganato io.

Rettifico prima che lo sottolinei tu: la diffusione delle tematiche relative al Menu Engineering non è TUTTO merito mio.

Sarebbe presuntuoso sostenere il contrario. Ma posso dire senza timore di smentita che ho dato una grandissima mano alla sua diffusione — che è ben lontana dall’essere completata, ma ci stiamo lavorando.

Infatti, quando ho iniziato a fare divulgazione sull’argomento, esso era sì conosciuto, ma solo in cerchie ristrettissime di appassionati, ed era appannaggio esclusivo di pochi eletti: alcuni Food & Beverage Manager, alcuni professoroni impostati e pochissimi libri accademici che ritagliavano miseri spazi alla trattazione della materia.

Oggi invece ne parla chiunque. E spesso, mio malgrado, totalmente a sproposito.

Io, dal canto mio, ho iniziato anni fa a parlarne in termini semplici, comprensibili e adatti ad un pubblico di non addetti ai lavori. E l’ho fatto tramite qualsiasi mezzo avessi a disposizione:

  1. Video sul nostro canale Youtube;
  2. Più di 100 tra articoli (su questo blog, sul nostro gruppo Facebook e su La Madia Travelfood) post e pillole;
  3. Podcast;
  4. Interviste in ogni dove (questa e questa sono le prime che mi vengono in mente, ma ce ne sono diverse altre sparse qua e là per il web);
  5. Corsi e seminari (tant’è che la prima edizione di MenuMastery è andata sold out senza che la pubblicizzassi minimamente);
  6. Blog (questo è il primo totalmente dedicato alla disciplina)
  7. Decine di casi studio e testimonianze di successo (qui ne puoi trovare alcune)
  8. E persino libri, visto che Brucia il tuo Menù è il primo testo dedicato all’ingegneria del menù e al Metodo MENUENGINE mai scritto in italiano.

Nonostante ciò, il mio approccio è continuato ad essere CRITICO: non ho smesso di mettere in dubbio ogni cosa che sapevo e facevo, nell’intenzione di migliorare sempre la mia tecnica e quindi i miei risultati, e così ho continuato a provare, testare, affinare, sbagliare, disfare e rifare per anni.

Dopo decine e decine di menù ingegnerizzati, dopo diversi successi e qualche sonoro FAIL, avendo raggiunto una buona padronanza della materia, ho deciso di fare un passettino ulteriore verso la maestria, e l’ho fatto rivolgendomi alla più grande autorità esistente a riguardo: Gregg Rapp (che insieme a Kasavana e Smith, il Menu Engineering, se lo sono inventati)

L’ho contattato direttamente e l’ho invitato a passare una settimana con me in Italia (e sono stato il primo italiano, per sua stessa ammissione, con cui è entrato in contatto professionalmente). Adesso ha la fila alla porta, prima la stragrande maggioranza dei miei competitor non sapeva nemmeno della sua esistenza. Ma va bene così.

Ho appreso con umiltà e gratitudine quanto mi poteva insegnare, ho avuto il piacere di intervistarlo e non smetterò mai di ringraziarlo per quanto mi ha ispirato, trasmesso e anche cazziato.

Non contento, continuando la mia ricerca, mi sono inventato il Cubo Magico, lo strumento che ha pensionato la Matrice BCG per l’ingegnerizzazione dei menù e che sta cercando di innovare ulteriormente la disciplina, oltre ad avermi aiutato a migliorare il mio lavoro e i risultati dei miei clienti.

E oggi continuo a fare informazione a riguardo, senza voltarmi più di tanto indietro — tant’è che queste righe sono le UNICHE autocelebrative che io abbia mai scritto. Non mi piace vantarmi o sbrodolarmi addosso. Mi piace lavorare e portare risultati ai miei clienti. And that’s it.

Tutto questo quindi non per fare il fenomeno o per lucidarmi l’armatura, ma semplicemente per dire che prendo il mio lavoro e il Menu Engineering MOLTO, MOLTO seriamente.

E mi incazzo arrabbio come una pantera quando leggo certi articoli, come questo o questo, scritti con una tale leggerezza e una tale spensieratezza che farebbero concorrenza ad un tema di prima elementare.

Attenzione: non voglio passare come quello geloso delle tematiche riguardanti l’ingegneria del menù. Non è assolutamente così. Anzi, chi ne parla fa del bene per tutta la categoria, perché ci aiuta nell’opera di divulgazione che ha l’obiettivo di spargere il verbo capillarmente nei ristoranti di tutta Italia.

Ma non in questi termini. In questi termini è una presa in giro che attira alla disciplina il target contrario a quello a cui si dovrebbe rivolgere. Parlarne in questi termini è un affronto a chi il menu engineering lo studia e lo applica per professione, ma soprattutto per i clienti finali, che ne dovrebbero usufruire e che dovrebbero goderne i risultati.

Di Menu Engineering — così come di qualsiasi altra materia tecnica e specialistica — ne dovrebbero scrivere e parlare solo due categorie di persone:

  1. Chi la materia la applica, con successo, da tempo;
  2. Chi ha approfondito a sufficienza la tematica da potersi permettere di scriverne;

E non dal primo scribacchino del web le cui parole sono pagate un tanto al chilo e che non si sforza nemmeno di fare un minimo fact-checking.

Ecco perché sto scrivendo questo articolo, per screditare e smontare, una volta per tutte, almeno due leggende metropolitane riguardo al Menu Engineering che gli scribacchini del web continuano a rimbalzare tra una testata e l’altra, facendo disinformazione ai danni degli operatori del settore Ristorazione e del mercato tutto.

Di queste leggende ne sono a decine, e non escludo che prossimamente ne parlerò, ma queste due sono veramente quelle che mi fanno più uscire di testa. Non tanto per la gravità della disinformazione che creano (c’è sicuramente di peggio!) quanto per la semplicità con sui si poteva evitare di parlarne. Perché sono semplicemente illogiche. E quindi semplicissime da confutare!

Per dimostrare la loro inefficacia sarebbe bastata una ricerca di quindici secondi su Google.

Ma, siccome chi ha scritto questi articoli non si è preso nemmeno la briga di attestare l’attendibilità delle fonti, lo faccio io per loro, chissà che non sia uno spunto per scrivere una rettifica a quanto esposto e pensarci due volte prima di scrivere altre eresie.

PRIMA LEGGENDA METROPOLITANA: GLI SWEET SPOTS (O TRIANGOLO MAGICO)

Una passata teoria vorrebbe l’esistenza degli Sweet Spots (o del Triangolo Magico, è la stessa cosa dal punto di vista concettuale) ossia dei particolari punti situati sulla superficie del foglio in grado di attrarre naturalmente l’attenzione di chi legge.

Secondo queste teorie l’attenzione del lettore intento a scegliere da un menù seguirebbe uno schema di questo tipo:

Muovendosi, appunto, dallo Sweet Spot in direzione delle frecce. Questi punti dovrebbero combaciare con le alternative più profittevoli del menù, perché statisticamente le persone le sceglierebbero di più e quindi il risultato sarebbe un maggior guadagno.

Ora, non è semplicemente vero.

Perché queste affermazioni vanno contro ai più basilari principi di design esistenti.

Per convincertene, guarda questi due menù.

Sono entrambi dei mono-pannello, in bianco e nero. Ho cercato di trovarli quanto più possibili simili, per creare un esempio accurato.

Ti domando: attirano la tua attenzione negli stessi punti? Leggendoli, la tua attenzione cade sugli sweet spots, seguendo il movimento illustrato poco più sopra?

Ma ovviamente no.

Avendo un design e un contenuto differente, la tua attenzione si sposterà in maniera altrettanto differente su un foglio rispetto all’altro!

Ed è così SEMPRE.

Gli Sweet Spots non sono mai uguali su menù diversi.

E la confutazione si potrebbe concludere qui.

Ma voglio rincarare la dose. Per cui, senza andare troppo lontano o senza parlare dei massimi sistemi, lo chiedo a te che stai leggendo.

Ma tu, hai mai preso in mano un menù e ti sei messo a fare zig-zag sulla pagina con gli occhi come lo schemino riporta?

Oppure l’hai letto partendo dalla sezione degli antipasti, o da ciò che ti andava di assaggiare quella sera, e hai costruito tutto il resto del tuo menù attorno a quella prima scelta?

Eddai, facciamo i seri.

E non mi citate gli studi vecchi e ammuffiti che hanno riportato che questi sweet spots esistano, perché ve ne potrei citare altrettanti che sostengono il contrario.

L’unica casistica nella quale mi può stare bene l’esistenza degli sweet spots è in un menù con un design inesistente, come potrebbe essere la pagina di un romanzo, cioè realizzato da un grafico di scarso o infimo livello.

In quel caso, poiché all’interno del menù non ci sono elementi in grado di catturare e mantenere l’attenzione di chi lo legge, può darsi che l’occhio del lettore si muova per coprire la maggior parte della superficie del menù, nel tentativo di decifrarne il contenuto e di fare chiarezza.

Ma se questi studi riguardano menù NON ingegnerizzati allora pare ovvio che NON si possono applicare a menù ingegnerizzati, rendendo di fatto nulli tutti i tentativi di dare un senso alla teoria degli Sweet Spots.

SECONDA LEGGENDA METROPOLITANA: I COLORI

Un recente articolo comparso su Marie Claire recita, in un suo passaggio, codeste parole:

Secondo la cromoterapia, ogni colore stimola un’emozione diversa e di conseguenza spinge verso determinate scelte. Il rosso è un eccitante, in natura è il colore usato per attirare, in campo gastronomico invece rinforza la scelta fatta. Il verde in cucina è sinonimo di cibo fresco e genuino, quindi viene abbondantemente utilizzato per sottolineare le materie prime.

L’arancio stimola l’appetito, il giallo viene utilizzato per dare un tocco di leggerezza ragionata. E il blu? Immancabile e preferito dei ristoranti di pesce perché richiama le onde del mare e i suoi prodotti.

Spinge verso determinate scelte? Un tocco di leggerezza ragionata? Immancabile nei ristoranti di pesce? 

Ma si potrà leggere, nel 2017, una roba del genere?

Mi rivolgo sempre a te, che stai leggendo: ma secondo te, il fatto che il tuo menù o determinate sue parti siano rosse, potrà mai ipnotizzare chi lo legge e spingerlo ad agire contro la sua volontà? E ancora: il fatto che ci siano degli inserti gialli potrà mai fare esclamare al cliente “Cavoli! Come sono leggeri, ma si vede che è ragionata!”??

Ma di cosa stiamo parlando?

Non metto in dubbio che la cromoterapia, in alcuni circostanziati ambiti, possa risultare efficace.

Sostengo invece fermamente che l’apporto della cromoterapia sul processo decisionale del cliente che legge un menù è prossimo allo zero. Ci sono decine e decine di fattori che concorrono maggiormente (ed è facile dimostrarlo) al far propendere la scelta del cliente indeciso tra un piatto o un altro. Ma tra questi, la cromoterapia è tra gli ultimi in classifica.

I colori sul menù devono seguire una sola e semplicissima regola:

Devono essere COERENTI e COORDINATI con l’identità complessiva del ristorante.

Fatto questo, gli unici limiti sono dettati dal buon senso e dal buon gusto.

Ad esempio, per ristorante informale ed accessibile, in cui prevalgono i colori caldi, anche il menù potrà e dovrà prevederli. Oppure per un ristorante raffinato ed esclusivo si potranno scegliere toni scuri e formali. E ancora, per un fast-food si potranno scegliere colori sgargianti e saturi per sottolineare la natura divertente e leggera del locale stesso.

In tutte e tre le casistiche c’è un solo principio da seguire: la coerenza e la coordinazione tra i colori dell’immagine del ristorante e quelli del suo menù.

FINE!

Con buona pace dell’arancione che stimola l’appetito, il giallo per il tocco di leggerezza ragionata e il blu che va bene per i ristoranti di pesce (poi mi spiegate come siete arrivati a partorire e soprattutto a MISURARE queste conclusioni)

QUINDI:

Voglio concludere questa trattazione con due considerazioni.

La prima considerazione riguarda te: ricorda che non è tutto oro ciò che luccica.

Specialmente se l’oro ti viene mostrato da chi non saprebbe distinguerlo da un pezzo di bronzo lucidato. Per cui: occhi aperti e non fidarti di ciò che leggi su internet, anche se lo scrive una testata giornalistica di cui ti fidi, e anche se lo scrivo io :-). Metti in discussione ciò che leggi, in particolar modo se riguarda la tua attività.

La seconda considerazione riguarda chi scrive articoli che vorrebbero avere un taglio tecnico con così tanta leggerezza: dovresti avere più considerazione del tuo lavoro.

Quando scrivi, hai il potere di influenzare e manipolare chi legge. Insomma, vale la pena sottolineare che quando scrivi, hai un grandissimo potere, dal quale derivano grandissime responsabilità.

Pertanto, non fare il superficiale.  Approfondisci e fai fact-checking prima di gettarti a battere sulla tastiera. Farai il bene di tutti.

Stay Leggenda

L

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