Il riassunto del riassunto della puntata di oggi è il seguente: la qualità NON esiste perché i clienti non la sanno riconoscere. Non la sanno nemmeno definire, ma voglio fare un salto di fiducia nei loro confronti e limitarmi a dire che non la sanno riconoscere. Non sapendola riconoscere, non la sanno apprezzare quando vi si trovano di fronte. Ecco il tutto. Se concordi a pieno, puoi smettere di ascoltare quanto segue e passare direttamente alle conclusioni del podcast. In alternativa, stai con me 🙂
Ciao, bentrovata e bentrovato, qui al microfono c’è sempre il tuo, il vostro, il nostro Lorenzo Ferrari che come sempre, sono io.
Diciamocelo: i nostri clienti hanno una conoscenza superficiale di quello che è il nostro lavoro. Sono certo che la maggior parte dei tuoi clienti non saprebbero riconoscere un filetto di vitello da uno di maiale, un branzino da un’orata, un Sangiovese da un Nebbiolo.
C’è una piccola – piccolissima – parte di pubblico che sa riconoscere la qualità: gli esperti (anche se, come vedremo nel proseguo dell’articolo, non è sempre vero nemmeno questo!)
Che siano cuochi, sommelier, gourmand o semplici appassionati.
La bella notizia è che gli esperti sanno riconoscere la qualità, ma la brutta notizia i tuoi clienti non sono degli esperti.
Magari tra la tua clientela ce n’è qualcuno, ben nascosto, ma su 100 clienti che frequentano il tuo ristorante, quanti possono realmente definirsi tali? L’ho chiesto in un recente sondaggio e i risultati sono stati unanimi: circa il 5%.
Ora, puntare tutto sulla qualità del prodotto significa accontentare solamente 5 clienti su 100. E i rimanenti 95, che non sono affatto in grado di riconoscerla?
Certo, si potrebbe pensare di educarli alla qualità, per fare in modo che quei 5 diventino 10, 20 o 100.
Ma hai il tempo, le energie e i soldi necessari per farlo? E soprattutto, sei sicuro che i tuoi clienti abbiano la voglia, il tempo e la passione per educarsi alla qualità?
Io ne dubito.
Comunque, questa affermazione che “i clienti non sanno riconoscere la qualità” non può essere lasciata lì così, appesa, a mezz’aria.
Va dimostrata.
E io voglio dimostrartelo, con 5 esempi concreti, veri, verificabili.
Esempio #1 – Cosa faresti se ti trovassi di fronte alla vera qualità?
Cosa faresti se ti trovassi di fronte alla massima espressione della qualità, dell’eccellenza, della maestria?
Ne saresti trasportato, ti sentiresti entusiasta, felice, persino commosso? Forse, ma è più probabile che non te ne renderesti nemmeno conto.
Per dimostrarlo, ti mostro un esempio. In un famosissimo video che andò virale sui social e su Youtube qualche tempo fa, il protagonista, che si chiama Joshua Bell, suonava il violino all’interno della metropolitana di Washington.
Ora, Joshua non è il violinista della domenica, ma è uno dei violinisti più famosi al mondo. E suonava con un violino da 4 milioni di dollari in mano. E lo ha fatto per 43 minuti filati, mentre suonava il concerto della vita.
Se la qualità esistesse il pubblico dovrebbe essere in visibilio, in lacrime, di fronte ad un’esibizione senza precedenti e senza pari.
E invece non se lo fila nessuno. Manco di striscio.
E in 43 minuti raccoglie solamente una manciata di dollari, qualche sguardo infastidito e tanta indifferenza.
Insomma, per dirla in francese: non frega un ca**o a nessuno dell’esibizione del migliore violinista al mondo nel momento in cui le persone non sanno che quello è il migliore violinista al mondo.
La lezione che ne traiamo? Semplice: la qualità non esiste se non viene prima percepita come tale.
Esempio Numero 2 – Si scrive qualità, ma si legge prezzo.
In un famosissimo articolo che tra poco ti racconterò, già dal titolo ci si pone una domanda piuttosto rilevante: ha senso acquistare del vino costoso? Vediamo se è così oppure no.
Lo psicologo Richard Wiseman ha condotto un semplicissimo studio riguardante il vino. Ha comprato un’ampia varietà di bottiglie al supermercato locale: dal Bordeaux da 5$ a bottiglia sino allo Champagne da 50$ a bottiglia, e ha chiesto ad alcune persone di individuare quale fosse quello più costoso.
Prima che lo chieda tu, rispondo io: sì, tutti i test sono stati condotti in doppio cieco, in modo che sia chi organizzava la degustazione che chi degustava fossero all’oscuro dei prezzi delle bottiglie (in modo da non influenzarsi a vicenda)
I risultati hanno scandalizzato qualunque eno-snob esistente al mondo: tra i 600 partecipanti solamente il 53% è riuscito ad individuare il vino più costoso.
Avrebbero raggiunto gli stessi – identici – risultati lanciando una moneta in aria e lasciando a lei l’onere della scelta.
Risultati più interessanti si sono ottenuti invece quando i partecipanti al test erano influenzati dal prezzo del vino.
Infatti, gli intervistati, quando gli si chiedeva di scegliere quale fosse il vino più di qualità tra una bottiglia di 9$ e una di 90$, inevitabilmente sceglievano quella da 90$.
Ciò che non sapevano, tuttavia, è che gli organizzatori del test avevano scambiato le etichette del prezzo delle due bottiglie: la più costosa era in realtà la più economica, e viceversa.
Insomma, nella stragrande maggioranza dei casi si scrive qualità, ma si legge prezzo, con sommo dispiacere di tutti gli appassionati di vino presenti sul globo terracqueo.
Esempio Numero 3 – “Si scrive qualità, ma si legge brand.”
La qualità non è solamente il riflesso del prezzo, alto o basso che sia.
Ma è un fattore influenzato anche dal brand a cui viene associato un dato prodotto.
Del resto, se andassimo in strada e chiedessimo ad un campione di persone se McDonald’s faccia qualità o meno, la maggioranza degli intervistati risponderebbe: “No, certo che no, McDonald’s NON fa qualità!”
Proprio perché il nome lo precede, e al nome di McDonald’s non è certo associata una percezione positiva quando si parla di qualità.
Ma come sarebbe se proponessimo il cibo di McDonald’s senza il brand della catena? Come sarebbe se valutassimo il cibo di McDonalds’ per quello che realmente è, e non per ciò che pensiamo che sia?
La risposta è in questo test, nel quale alcuni ragazzi, dopo aver acquistato cibo di McDonald’s lo hanno rivenduto come biologico ad una fiera di settore.
La reazione è stata sconvolgente. Gli “assaggiatori”, rimasti entusiasti del prodotto proposto dai due ragazzi, sostenevano: “È davvero buono. Il paragone con McDonald’s? Questo ha un sapore migliore, si sente che è cibo ‘puro’“.
Uno dei commenti più frequenti a conferma che il “McBluff” è stato servito alla perfezione.
Esempio Numero 4 – “Noi italiani… Siamo uguali al resto del mondo.”
Di fronte all’esempio di cui sopra avrai probabilmente pensato:
“Sì ok, ma questi sono tedeschi, cosa vuoi che ne capiscano di qualità e di buon cibo? I clienti italiani son diversi, son più informati…”
Se ragionassi per stereotipi potrei pure darti ragione, e non ti nego che sono inciampato anche io nello stesso ragionamento, fino a quando non ho visto realizzare un esperimento molto simile, in Italia, che ha dato risultati del tutto analoghi.
Non ci credi? Guarda tu stesso.
Il 9 aprile del 2016, a Milano, aprì una nuova hamburgeria: il Single Burger.
Il locale, “certificato” dalla presenza di due ex concorrenti di Masterchef, si è presentato come l’ennesima alternativa hipster e gourmet al classico mondo del fast food.
In realtà, dietro l’insegna della paninoteca si nascondeva il sorriso sornione del CEO di McDonald’s, pronto a far ricredere tutti i gastro-fighetti di Milano.
Per due giorni, infatti, il ristorante ha servito ai clienti entusiasti prodotti McDonald’s, preparati da dipendenti McDonald’s, con attrezzature McDonald’s, ma con un brand e un servizio differenti.
Inutile sottolineare, ma lo farò comunque, come chiunque sia caduto in pieno nella trappola.
Infatti, una volta caduta l’insegna e svelata quella reale, gli sguardi attoniti, i “Vabbè ma non era poi così buono…” e le post-giustificazioni si sono sprecate.
Il commento del direttore marketing di McDonald’s a riguardo direi che riassume bene quanto è successo: “È stato sufficiente nascondere il marchio e mostrarci con un nuovo vestito per far parlare solo il gusto e la qualità degli ingredienti, lasciando in secondo piano i pregiudizi.”
Esempio Numero 5 – “Gli esperti ci salveranno! O forse no…”
L’ultimo baluardo della difesa alla qualità: gli esperti.
Gli esperti SANNO cos’è la qualità. La sanno riconoscere, la venerano come una divinità, la rispettano con distacco e la misurano con precisione.
Giusto?
Sbagliato.
Nel 2001, Frédéric Brochet, un ricercatore di Bordeaux, ha condotto uno studio riguardante il vino, nel quale chiese a 57 esperti (o presunti tali: vorrei capire il metro con cui hanno determinato che lo fossero!) di degustare due calici di vino, un bianco ed un rosso. Piuttosto semplice.
Se non fosse per la bastardaggine del nostro Brochet, che mise nei calici lo stesso identico vino bianco, ma aggiunse del colorante alimentare ad uno dei due, rendendolo… Rosso.
Qualche tempo dopo uscirono i risultati del test.
Nonostante i due vini fossero in realtà lo stesso vino, questo non ha fermato gli esperti dal descriverli come due vini totalmente diversi.
Usarono un linguaggio da vino “rosso” per descrivere il vino che sembrava rosso, e allo stesso modo descrissero il contenuto del calice che sembrava bianco.
Nessuno di loro riuscì ad intuire il trucco dietro l’esperimento.
In un secondo test Brochet mise del Bordeaux (di fascia media) all’interno di due differenti bottiglie. Una delle due portava un’etichetta Grand Cru (un’indicazione di qualità superiore, vera o presunta che sia) mentre la seconda portava l’indicazione “Vino da tavola”
Puoi immaginare i risultati.
Nonostante i due vini serviti fossero lo stesso vino, gli esperti diedero indicazioni enormemente differenti, dando votazioni opposte, facendosi trasportare e influenzare dalla percezione che avevano delle due bottiglie.
E quindi, se il vino da tavola venne descritto come “debole, corto, piatto e di poca intensità”, il Grand Cru fu osannato come “complesso, bilanciato, rotondo e piacevole”.
Brochet commentò così l’esperimento: “It is a well-known psychological phenomenon – you taste what you are expecting to taste. They were expecting to taste a red wine, and so they did. What we perceive is a mixture of thought, vision and taste.”
Insomma, senti ciò che ti aspetti di sentire. Si scrive qualità, ma si legge percezione di qualità.
Se vuoi perdere un po’ di fiducia nel genere umano, ci sono video su internet dove esperti d’arte tessono le lodi di tele acquistate da IKEA, ma esposte all’interno di una galleria d’arte. Se vuoi definitivamente convincerti del fatto che gli esperti “sono in mezzo a noi, sono come noi, ma si sentono meglio” (cit.) ti consiglio la lettura del mio libro preferito, nonché la pietra angolare di tutto il marketing, che si chiama Pensieri Lenti e Veloci. È scritto da un esperto vero (esistono gli esperti veri?) che su queste tematiche ci ha vinto un Nobel, che si chiama Daniel Kahneman.
A pagina 313 inizia un capitolo che si chiama “Intuizione esperta: quanto possiamo fidarci?”.
Non voglio spoilerarti il finale, ma ti do un’indizio: la risposta più corretta alla domanda posta da Kahneman è “Poco.”
Insomma, spero che giunti a questo punto si chiaro come…
La qualità non esiste. Esiste la percezione di qualità.
E la percezione di qualità – anzi, tutte le nostre percezioni, quindi il modo con cui ci interfacciamo con l’ambiente a noi circostante – sono influenzate, manipolate e a volte persino plagiate dal marketing.
Il Marketing è quell’insieme di tecniche e strategie la cui finalità è quella di modificare la percezione di qualità di qualcosa.
Mangiare una semplice margherita può non essere un’esperienza entusiasmante.
Mangiare la stessa margherita una volta che il pizzaiolo, arrivato al tavolo, ha speso qualche minuto per elencare la lenta e lunga lievitazione dell’impasto, realizzato con un mix segreto di farine e lievito madre, all’interno della loro “Aging Room”, nella quale ha passato 94 ore, e che una volta steso e farcito con pomodoro San Marzano DOP, mozzarella a doppia cagliata dei Monti Lattari e basilico fresco di giornata, ecco, in quel caso può diventare un’esperienza.
La qualità della pizza non è cambiata.
È la percezione della stessa che è cambiata totalmente, e ora ci sembra più simile ad un’opera d’arte invece che a del semplice cibo.
Nessuno sfugge al marketing. Dal meno al più esperto, tutti noi, siamo vittima del marketing, e ne subiamo gli influssi in maniera più o meno consapevole.
E sarebbe bene rendersi conto che, quando decantiamo le qualità di un vino, di una pizza, di un’ananas, del McDonald’s e via discorrendo è probabile che stiamo indirettamente tessendo le lodi anche del loro ufficio marketing, e non solo della produzione.
Conclusioni: quindi? La soluzione è proporre me**a?
Assolutamente NO.
Qui parliamo di marketing (e quindi di percezione) perché diamo per scontato che la qualità (cioè la realtà oggettiva) ci sia sempre.
E sosteniamo che sia più importante la prima SOLO ed esclusivamente perché la premessa è che la seconda CI SIA SEMPRE. Qualsiasi cosa significhi per te qualità.
Noi diamo per scontato la qualità, quindi parliamo di marketing e della sua efficacia.
Ma se da questo discorso togliamo la qualità, il marketing non ha più nessun senso di esistere. Diventa una truffa a tutti gli effetti.
Ma possiamo permetterci di fare questa premessa e di darla per vera perché, mediamente, chiunque si occupi di ristorazione in Italia detiene la qualità, ma pecca notevolmente per quanto riguarda il marketing.
E a loro ci rivolgiamo dicendo che i tempi son cambiati, e che fare un prodotto di qualità non basta più. Oggi serve lavorare ANCHE sul marketing.
Ma se la situazione fosse invertita, se tutti detenessero competenze di marketing ma nessuno detenesse la qualità, parleremmo esattamente del contrario, perché la qualità diventerebbe la materia prima “scarsa”, quindi di importanza superiore.
Percezione (ciò che sembra) e qualità (ciò che è ) son due facce della stessa medaglia, e sono fondamentali entrambe.
In azienda devi avere chi si occupa di qualità del prodotto (la cucina) e chi si occupa della percezione di qualità (l’ufficio marketing).
Solo così riuscirai a rendere veramente di qualità ciò che fai.