Sono recentemente uscite due notizie che hanno creato un bellissimo e sano dibattito sul nostro gruppo Facebook, quindi oggi voglio commentarle insieme a te e a voi che mi ascoltate. Una riguarda una sparata terra-aria fatta da Renè Redzepi sul futuro della ristorazione, che sarebbe un hobby e non un mestiere (!!!), l’altra un no-show da 21 persone con conseguente denuncia da parte del titolare.
Fatemi sapere se vi piace questo genere di commento estemporaneo sull’attualità del nostro settore e se il Lorenzo in modalità “opinionista” vi piace o vi fa inaridire le fauci. Che se vi piace chissà, magari mi invitano in televisione…
Bentrovato e bentrovata, qui al microfono c’è sempre il tuo, il vostro, il nostro Lorenzo Ferrari che come sempre sono io.
Prima di ogni altra cosa, un aggiornamento sul riempimento sale TOUR: Cagliari rimane in testa ma, udite udite, cambiano il secondo e il terzo posto, che rispettivamente se li aggiudicano Padova e Milano! Niente, sto aereo me lo devo prendere! Maledetti.
Comunque, andate sul sito e prendete il vostro biglietto, siamo al 30% di riempimento e i biglietti continuano ad andare via come il pane. Vi aspetto nella vostra città!
Notizia #1 | Renè Redzepi le spara grosse, incurante di tutto e di tutti
Renè Redzepi, patron, tra le altre cose, del Noma a Copenaghen, rilasciata a Sasha Correa, nel corso dei Dialogos de Cocina del Basque Culinary Center, fedelmente riportata da Gastronomia 360, racconta in che modo il Noma deve cambiare per rimanere se stesso, adattarsi a un settore che sta attraversando una grande trasformazione, e rispondere a nuove esigenze.
Dice che il sistema dei ristoranti, che è un tritatutto per i giovani non può funzionare più: bisogna assicurare a tutti un livello di vita adeguato e sostenibile, avere un impatto significativo sul mondo dell’alimentazione, e creare una prospettiva a lungo termine in cui immaginare un futuro. E mentre il pubblico aspetta l’apertura delle prenotazioni per accaparrarsi uno dei pochi posti a disposizione, Redzepi pensa che sia giunto il momento di voltare pagina.
“In quale direzione pensi che il settore dovrebbe adattarsi?” Chiede la giornalista. Risponde il nostro, ad onor del vero lo dice e lo sottolinea: “Posso raccontarti cosa facciamo nel nostro ristorante, perché non credo che sia necessariamente applicabile anche ad altri posti.”
Poi parte con il suo solito viaggio metafisico, onirico e puramente personale nel quale dice di aver sognato il 2070, lo dice davvero, e di essersi fatto delle domande sulla vita, l’universo e tutto quanto. Cita il solito COVID-19, dice che si prenderà cura delle persone visto che in passato le ha spremute come cedri, dice che chi lavora in ristorazione non può avere una vita, poi dice che si prenderà carico delle responsabilità, eccetera.
Domanda quindi la giornalista: “hai già trovato un modo per arrivarci?” Risponde il nostro: “Ovviamente. È incredibilmente difficile, ed è per questo che ci stiamo muovendo verso Noma 3.0. Lavorare in un ristorante deve diventare il nostro hobby, un posto dove divertirci, non un posto dove mantenerci. Ecco come vedo il futuro.”
Ora, chiaramente la sua sparata è ben ragionata. Sa che dividerà l’opinione pubblica, farà parlare di sè, aumenterà l’hype e quindi le prenotazioni al Noma. Ormai è una strategia consolidata: il giornalista gli fa un cross, lui la spara fortissimo in porta ed esulta davanti alla curva, mentre tutto lo stadio gli urla contro. In questo niente da dire, è un fenomeno.
Ma se ciò che dice è una sciocchezza, io non posso far finta che abbia detto una verità sacrosanta. E questa è una grande, gigante, sconfinata sciocchezza.
Quello che dice René Redzepi nella frase che citi riflette la sua visione personale, maturata dopo anni al vertice della ristorazione mondiale. Per lui, dopo aver raggiunto un certo livello economico e di realizzazione personale, il ristorante può trasformarsi in uno spazio di sperimentazione, quasi un hobby creativo. Ma è una condizione d’élite, che riguarda l’1% e forse meno di chi lavora nel settore.
I comuni mortali devono andare a lavorare e guadagnarsi la pagnotta. Incredibile che sia così, lo capisco, ma per mangiare si va a lavorare. Lavoro = soldi e soldi = cibo. Incredibile, capitalistico, so che nel 2025 parlare di andare a lavorare suoni come un’eresia ma oh, ci tocca.
Nel 99% dei casi, un ristorante è prima di tutto un’impresa: deve generare reddito costante per sostenere i costi, pagare il personale e garantire la stabilità economica.
Quello che infastidisce è che René Redzepi, pur parlando della sua esperienza personale, sembra porsi come voce universale della ristorazione, come se la sua scelta fosse la naturale e obbligata evoluzione del mestiere. Della serie: altre alternative non ce ne sono, seguitemi sulla via illuminata.
Questo approccio rischia di creare una narrazione distorta: lui può permettersi di trasformare il ristorante in un “laboratorio creativo dove vivere di idee e di sogni”, ma può farlo perché ha costruito un impero, ma la stragrande maggioranza dei ristoratori vive la gestione di un locale come un’impresa economica complessa, fatta di numeri, margini e sopravvivenza quotidiana.
Quando dice che “il ristorante deve diventare un hobby”, sembra quasi dimenticare che per molti la cucina è un mestiere e un mezzo di sostentamento, non un lusso o un gioco. Si rischia di alimentare un’immagine elitaria della ristorazione che non rappresenta la realtà concreta di chi fa questo lavoro ogni giorno, affrontando sfide ben diverse: salari dignitosi, costi delle materie prime, sostenibilità finanziaria, carenza di personale.
In sostanza, Redzepi parla da una torre d’avorio, e per quanto la sua visione possa essere d’ispirazione per qualcuno o perfetta per finire sui giornali, non è replicabile né realistica per il 99% dei ristoratori nel mondo.
Inoltre, il futuro della ristorazione è già scritto ed è il percorso intrapreso da tanti nel mondo: si chiama fare impresa.
Il futuro della ristorazione non è un’utopia artistica per pochi eletti, ma un percorso già tracciato da tanti imprenditori del settore: si chiama azienda. Oggi il ristorante di successo è prima di tutto un’azienda sana, capace di generare valore economico e sociale. Un’impresa che si prende cura delle persone: dei dipendenti, garantendo condizioni di lavoro dignitose e sostenibili; dei titolari, assicurando redditività e qualità della vita; dei clienti, offrendo un’esperienza autentica e professionale.
L’obiettivo non è più sacrificarsi in nome di una presunta “vocazione artistica”, ma costruire un modello imprenditoriale che funzioni nel lungo termine. Dove la creatività è al servizio del business e non viceversa. La vera innovazione oggi sta nel rendere il mestiere del ristoratore una carriera solida, in cui non si debba scegliere tra passione e benessere, tra qualità di vita e qualità del lavoro.
Redzepi può permettersi di vedere il ristorante come un hobby. Ma il futuro della ristorazione è un’impresa vera, in grado di creare benessere per tutti.
Un’azienda sana e ben strutturata nel settore della ristorazione crea benessere reale e tangibile per almeno quattro soggetti fondamentali.
- Dipendenti: Lavorare in un’azienda solida significa avere sicurezza, stipendi equi, orari sostenibili, opportunità di crescita e formazione. È la fine del lavoro precario e sottopagato: il dipendente diventa una risorsa da valorizzare, non un costo da comprimere.
- Fornitori: Un’impresa solida onora i propri impegni economici, paga in tempi certi e costruisce relazioni durature. Questo consente ai fornitori di crescere, innovare e mantenere alta la qualità dei prodotti, generando un circolo virtuoso.
- Titolari: L’imprenditore che costruisce un’azienda efficiente non è più schiavo del locale. È un leader, può delegare, progettare strategie di sviluppo e, soprattutto, vivere una vita equilibrata, garantendo redditività e sostenibilità al proprio business.
- Clienti: In un ristorante-azienda i clienti ricevono un’esperienza professionale, costante e di qualità. Non dipende dall’estro del momento, ma da processi ben rodati che garantiscono servizio, accoglienza e cucina di alto livello, generando fiducia e fidelizzazione.
Questa è la vera rivoluzione: trasformare il ristorante in un’impresa capace di creare valore condiviso per ogni persona coinvolta nella sua catena.
Notizia #2 | Il No show è un reato?
Avevano prenotato in ventuno, erano tutti clienti attesi all’agriturismo sulle alture di Genova. Peccato che sui quaranta posti totali, questi 21 non si sono presentati per pranzo così metà del locale è rimasto vuoto. Nessuna telefonata per avvisare del mancato arrivo, tanto meno di scuse successive.
E’ stata una domenica da dimenticare all’agriturismo fattoria didattica Il Ciliegio di San Desiderio, sulle alture di Genova, con due diversi gruppi numerosi che non hanno minimamente informato i titolari del locale per disdire i tavoli. Oltretutto, l’agriturismo si trova in una zona complicata da raggiungere, dunque non può sfruttare del cliente di passaggio: per cui se all’ultimo saltano dei tavoli, per i titolari è praticamente impossibile rimpiazzarli.
Uno potrebbe pensare che la denuncia del titolare dell’agriturismo “Il Ciliegio” sia un’esagerazione, un gesto di frustrazione, o addirittura una perdita di tempo. Si potrebbe dire che la soluzione stia nell’aumentare il marketing, migliorare l’organizzazione, inserire politiche più stringenti sulle prenotazioni. E sì, sono tutte strategie valide e fondamentali per chiunque faccia impresa nella ristorazione oggi.
Una parte di me pensa che a problema si risponda con soluzione. E la soluzione non è denunciare, ma prevenire. Di come si limitano i no-show ne abbiamo parlato in lungo e in largo e non mi ripeterò. Ma in questo caso, ad esempio, una caparra era semplicemente d’obbligo: non puoi organizzarti per servire 21 persone senza tutelarti. Non puoi.
Eppure, non possiamo ignorare che episodi simili rappresentano il sintomo di un problema culturale più grande. La ristorazione, per molti, è ancora vista come un servizio di cortesia, qualcosa a cui non si attribuisce il giusto valore economico. Prenotare venti, trenta o novanta coperti e poi non presentarsi è ancora percepito come una “leggerezza”, non come un danno d’impresa
Infatti episodi come questo hanno un valore collettivo, per tutti. Servono. Perché aprono gli occhi sull’assurdità di certe dinamiche che il nostro settore si porta dietro da troppo tempo. Oggi nessuno si sognerebbe di prenotare 21 camere in un hotel, 21 biglietti aerei o 21 ingressi al cinema senza garanzie: caparre, penali, termini di cancellazione sono la normalità in tantissimi ambiti.
E allora, perché dovrebbe essere diverso per un ristorante? Perché dobbiamo continuare a essere l’unico settore in cui la parola “prenotazione” viene presa alla leggera, dove il rischio imprenditoriale di un cliente che non si presenta è ancora tollerato come fosse parte del gioco?
Ci vogliono dei “martiri”, persone disposte a esporsi, a prendersi la fatica di una denuncia, il peso di una shitstorm, la seccatura di sentirsi dire che esagerano. Ma è proprio da questi gesti che passa il cambiamento culturale: serve qualcuno che alzi la mano e dica che è ora di finirla. Che la ristorazione è un’impresa come tutte le altre, e merita rispetto.
Quindi solidarietà al collega e bravo!
E ora, due cose importantissime:
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Alla prossima puntata e come sempre… #daicazzo