Kebhouze, il kebab lanciato in pompa magna da Gianluca Vacchi e soci nel 2021, dopo 3 anni e più di vita, inizia ad uscire dalla fase startup e inizia la sua fase matura. L’aquilotto lascia il nido e si presta a volare. Volerà o si schianterà sulle rocce sottostanti facendo una frittata di volatile? Insomma, ‘sto kebab italiano con le materie prime di qualità, è top o fa flop? Ne parliamo nella puntata di oggi.
Bentrovata e bentrovato, qui al microfono c’è sempre il tuo, il vostro, il nostro Lorenzo Ferrari che come sempre sono io.
Oggi voglio commentare insieme a voi il progetto Kebhouze, sempre con il solito rispetto che porto a chiunque faccia impresa in Italia, rischiando culo, reputazione e soldi, e siamo tutti d’accordo che queste cose abbiano un valore di per sé.
Eppure come ogni parabola imprenditoriale si può studiare, approfondire e tirare fuori qualche lezione utile a tutti. Il mio intento di oggi è proprio questo: prendere ad esempio Kebhouze non tanto per fare del gossip, quanto per tirare fuori del bello da questa storia e uscirne tutti più arricchiti.
Quindi voglio raccontarvi 4 ragioni secondo le quali, almeno secondo me, questo progetto, così com’è ad oggi, non ha un futuro roseo.
Ragione #1 | Manca una Identità Differenziante
I fondamentali, dal mio punto di vista, non ci sono. Cosa intendo?
Intendo dire che non ci hanno ancora spiegato chiaramente e con parole povere perché dovrei scegliere Kebhouze rispetto a tutti gli altri kebab.
Parlando di Kebab, che ormai è entrato nella cultura gastronomica italiana, visto che chiunque di noi ha il proprio kebabbaro di fiducia, possiamo iniziare a ragionare sul perché l’italiano scelga un kebab.
Cos’è il kebab per l’italiano? In una parola, è uno sgarro, uno strappo alla regola, un peccato di gola. Scendendo nello specifico è un pasto economico, accessibile, alla portata di tutti, un po’ lurido e un po’ unto, da consumarsi in hangover, durante una sbornia, dopo una serata in discoteca, in quelle situazioni dove un panino indulgente con cipolla e tripla maionese non provoca sensi di colpa, che ci si concede ogni tanto quando il “fare schifo” è un’opzione tutto sommato accettabile.
Inoltre, chiunque di noi ha un “kebabbaro di fiducia” o comunque un posto safe che sa dove approdare quando alla ricerca, appunto, di un kebab o un pasto dalle caratteristiche che ho elencato poco più sopra.
In quest’ottica, mi verrebbe da dire che Kebhouze opera in un “mercato di sostituzione”, dove non si tratta di far conoscere un prodotto innovativo e appena arrivato sul mercato, ma dove il gioco è far cambiare fornitore di fiducia ai tanti italiani che si sono già avvicinati al kebab.
A livello comunicativo, come comunica Kebhouze? Parlano di qualità e materie prime italiane.
Che, come dimostrato poco fa, sono esattamente due elementi che i clienti NON cercano quando si parla di kebab. Qualità e materie prime NON sono rilevanti. Vogliamo fare schifo quando addentiamo un kebab, non sentirci bene o in pace con noi stessi. Vogliamo godere come suini, non contare le calorie.
E, se mi dicessero che il Kebab di Kebhouze facesse dimagrire, perché “fit” o perché salutare, e mi spiegassero il perché e il percome, io ci starei. Sarebbe una ID a tutti gli effetti. Rimarrebbe da capire se efficace o meno sul mercato, ma ci sarebbe.
Invece parlare di materie prime italiane e di qualità, spiace, ma non vuol dire proprio niente.
Quindi, in questo senso mancano i fondamentali. Dal mio punto di vista Kebhouze dovrà trovare un altro elemento differenziante, perché quello che sta comunicando adesso NON è rilevante per il pubblico.
Sì, qualcuno sicuramente c’è che cerca un’alternativa “di qualità”, qualsiasi cosa significhi, visto che la qualità in senso oggettivo NON esiste, al kebab, ma quanti sono? Sono abbastanza? In my humble opinion, no.
Inoltre, tutto questo si riflette nelle recensioni, che online sono centinaia e non proprio belle, anzi brutte / bruttissime. Potrete dirmi che tutti abbiamo degli hater, è vero, ma quando sono così tante hanno un valore: perché l’opinione dei clienti conta.
Checché se ne dica, conta! Kebhouze dovrà lavorare sulla consistenza, sul prodotto e sul servizio. La ristorazione è cibo, bere, divertimento. Su uno dei tre pilastri Kebhouze deve eccellere, sennò non si va avanti.
Seconda ragione: aprire è “facile”, consolidare no
Partiamo da un postulato. Aprire è facile, consolidare è difficile. Ve lo dimostro aprire basta spendere, basta aprire il portafogli. Non serve altro. Metti sul piatto dai 200k a salire e apri un locale.
Per consolidare, quindi renderli profittevoli quei locali, non basta aprirli, serve creare un modello di business solido, serve farsi pagare il giusto, serve acquisire clienti in target, farli tornare, farli passare-parola, non è facile e non è alla portata di tutti. Anzi, quando succede è sempre un mezzo miracolo.
Ergo, non si può misurare il successo di un brand da quanti locali apre, perché ripeto, aprirli è facile: basta spendere.
Qui c’è da spezzare una lancia in loro favore: perché Kebhouze non si è limitato ad aprire, ma lo ha fatto davvero velocemente. E farlo velocemente è difficile: segno inequivocabile che c’è del bello nella società che sviluppa, c’è know-how e ci sono procedure, perché una ventina di locali in 2 anni non è facile, è quasi uno al mese.
Quindi a loro va il mio plauso per questo.
Ma ribadisco quanto detto più sopra. Ad un certo punto il tutto andrà consolidato. Non si può continuare ad aprire sperando che gli EBITDA e i margini si sistemino da soli. Perché non succede mai. Aprire e sperare che l’hype generato dalle aperture sistemi i conti è sempre una strategia fallimentare.
Ci sono strategie per aprire. E ci sono strategie per consolidare. E spesso è difficile fare due cose contemporaneamente: o ci si concentra nell’aprire, e farlo velocemente, o ci si concentra nel consolidare. Spesso le due cose richiedono focus e skill diverse, difficilmente coesistono contemporaneamente nello stesso team.
A riguardo però ho letto dei comunicati stampa che mi hanno preoccupato. Ho sentito parlare di Franchising. Ecco, io prima di darmi al franchising vorrei che il modello di business fosse rodato e solido. Perché farsi male bruciando i propri soldi o quelli presi in prestito dalle banche è un conto, ed è lodevole, perché indice di quanto ci si creda, ma farlo con i soldi di altri privati, facendo leva su un brand in vista, non è bello.
Quindi il mio consiglio è semplice: se non guadagnate, fermatevi, respirate, ragionate, consolidate, guadagnate, guadagnate tanto, poi datevi all’espansione, anche in franchising.
Non fate il contrario, raramente funziona.
Terza ragione: il testimonial
Il testimonial non è più adatto. Gianluca Vacchi, da qualsiasi parte lo si guardi, è un personaggio estremamente polarizzante.
E come tutti i personaggi polarizzanti, seguono un ciclo: all’inizio c’è curiosità, voyeurismo, interesse, chiacchiericcio, passaparola, poi attenzione e magari persino hype. Poi, scandalo dopo scandalo, altarino dopo l’altarino, la bolla si sgonfia e l’hype cede il passo alla triste realtà.
E a questo punto l’opinione pubblica si divide in due, in fazioni più o meno grandi: da un lato si schiera chi ama il personaggio, dall’altro chi lo odia.
Oggi non so in che percentuale siano ripartite le fazioni, ma da quel che sento e vedo credo che ci siano tanti, tanti, probabilmente tantissimi hater di Gianluca Vacchi, che agiscono da detrattori.
Questo non fa bene a Kebhouze, per due ragioni:
- La prima è che un personal brand spesso fagocita il brand del ristorante stesso; e oggi si parla ancora di Kebhouze come il kebab di Gianluca Vacchi, a dimostrazione di quanto appena detto; occorre lavorare ancora di più per dare un’identità precisa a Kebhouze e allontanarsi dal brand Gianluca Vacchi, che in questo momento non è in grado di valorizzare Kebhouze ma, al massimo, a togliere valore;
- La seconda è che si rischia che l’odio, i meme e le gag relative al brand Vacchi rovinino la reputazione di Kebhouze.
Facile? Neanche un po’. Avranno bisogno di tanta pazienza e anche di un briciolo di fortuna.
Quarta ragione: i bilanci
Il bilancio del 2022 non è proprio bellissimo. 4,5M di ricavi, 1M e rotti di perdita.
Due premesse prima di approfondire questo punto.
La prima è che questi sono numeri normalissimi per una catena che apre così velocemente. Credetemi, vedo bilanci di ristorazione 24/7 ed è davvero difficile, o meglio, irrealistico pensare di fare utile già nei primi anni con un progetto di sviluppo così veloce e repentino.
La seconda è che i bilanci sono pura fantasia. C’è gente che scarica un bilancio da internet e pensa di poter conoscere il reale andamento di un’azienda.
Non è così, non è assolutamente così: i bilanci sono facilmente modificabili e possono rappresentare la realtà che si desidera rappresentare. Solo i commercialisti e gli imprenditori sanno veramente i conti economici e i piani finanziari giorno per giorno, sanno se i locali guadagnano per davvero o meno, sanno se il cashflow gira, se i conti tornano e gli utili stanno mancano provvisoriamente solo per via di investimenti ingenti, come, peraltro, è probabile.
Ciò detto, occorre che il bilancio 2023 dipinga un quadro migliore, altrimenti la situazione inizia a puzzare, ma da qualche comunicato stampa ho letto che gli EBITDA di tanti store sono già in positivo quindi spero per loro che sia vero e in tutta onestà tifo per loro.
Detto questo, chiedo di non dimenticare una cosa: al di là delle simpatie personali che ognuno di noi nutre verso chiunque e sono sacrosante, qui stiamo parlando di persone, di imprenditori, di aziende che stanno rischiando soldi, faccia e tempo in un progetto nel quale credono. Per questo sono meritevoli di tutto il rispetto dell’universo. Per quanto possa contare, il mio grande in bocca al lupo a Kebhouze.