RR 092 | Il Fine Dining è morto (ma lui non lo sa)

Eppure, negli ultimi tempi, nel nostro bel settore circolano voci di corridoio, chiacchiericci e semplici pettegolezzi sulla presunta morte del fine dining. C’è chi lo dà per morente, chi lo dà proprio per spacciato, chi dice che l’ha sempre saputo, e che era tra quelli al fiume ad aspettare la salma del proprio nemico. Secondo alcuni, le stelle Michelin stanno tramontando, l’alta cucina è in crisi e il futuro appartiene esclusivamente a trattorie, piatti della tradizione e all’autenticità senza fronzoli. Ma è vero? Ne parliamo nella puntata di oggi.

Bentrovata e bentrovato, qui al microfono c’è sempre il tuo, il vostro, il nostro Lorenzo Ferrari, che come sempre sono io. Oggi pronto a sfidare lo status quo.

Sono qua per dire che non è morto proprio nessuno. E che tra cent’anni l’alta cucina sarà qui tra noi, viva e vegeta, così come c’era 100 anni fa. Ci scommetto la reputazione. 

E nessuno potrà smentirmi visto che sarò bello che morto e sepolto. E se sarò vivo datemi il colpo di grazia, che avrò 135 anni e sarà ora di lasciare questo piano dimensionale, volente o nolente.

Dunque, l’alta ristorazione sarà qua tra noi tra 100 anni. Certo, sarà diversa da quella di oggi, sarà mutata rispetto ad oggi, sarà evoluta, anche una pietra non era uguale alla sé stessa di 100 anni fa, figuriamoci un intera categoria. Cambierà, come tutte le cose che appartengono a quest’universo, ma sarà parte integrante del nostro vivere la ristorazione. 

Ma facciamo un passo indietro.

C’è chi dice che il fine dining è in crisi. 

Ne parlano i giornali e ne parlano quelli intervistati dai giornali. E quelli intervistati dai giornali sono, spesso, esponenti di quella che viene definita l’alta ristorazione, l’alta cucina, il fine dining appunto.

Cuochi, ristoratori, osti e baristi di fascia alta che chiudono, spesso cambiando format e aprendosi dei format più accessibili e informali, e piangono un po’, dando la colpa alla presunta crisi del fine dining.

Ora, oggi va di moda prendere una tesi che è affine al nostro pensiero, che ci piace, che in qualche modo ci solletica, e darla per vera. Senza dimostrarla. Poi si prende qualche sparuto caso (che ricordiamo, non fa statistica a sé) e lo si porta a supporto della tesi e voilà, ecco fatto, abbiamo dimostrato la nostra tesi.

Ecco no. No. No care e cari, per dimostrare quella tesi servono dati, numeri, fatti. Non intervistare qualcuno di “famoso” — sto facendo le virgolette con la mano — e dire che è finito tutto. Per 2 motivi:

  1. Il primo è che quel qualcuno potrebbe avere un conflitto d’interesse nel dare la colpa alla crisi del fine dining. Sempre colpa di qualcun altro: chiudo? Colpa della crisi. Spacco? Merito di quanto son bravo. Non funziona così, e i fallimenti sono SEMPRE frutto di più concause, non solo di una crisi, peraltro non dimostrata;
  2. Il secondo motivo è che posso citare altrettanti casi di ristorazione fine-dining che non solo se la passa bene, ma se la passa benissimo. Bottura l’anno scorso ha chiuso con 16 milioni di euro di fatturato e 6 di utile. Se la passa male? Non direi proprio. Idem tanti altri, Cannavacciuolo, i Fratelli Cerea, Perbellini, Alajmo e potrei continuare all’infinito: per uno che cade e sprofonda, ce n’è un altro che vola sempre più in alto.

Per parlare di crisi del fine dining non servono aneddoti e singole casistiche, servono dati.

Ecco, a proposito di dati, lasciamo parlare loro, visto che ce li abbiamo. Ne do soltanto due, ma ne ho altre centinaia dentro al nostro Rapporto dell’Osservatorio Ristorazione che a breve uscirà.

Innanzitutto, i ristoranti stellati in Italia, che aumentano ancora. Eh sì, ci sono più stelle che nel 2023. Nel 2023 abbiamo 395 ristoranti stellati, erano 385 nel 2022, 378 nel 2022 e 371 nel 2020. E di questa categoria non è che i problemi son nati adesso, c’erano anche prima, andate a recuperarvi la puntata di Radio Ristorazione dove ne ho parlato, è la numero 20.

Ricordo a tutti che ogni anno, negli ultimi 10 anni, hanno chiuso una media di 26.261 attività di ristorazione. Sono 71 al giorno, 3 ogni ora. 

Inoltre, secondo gli ultimi dati del nostro Osservatorio Ristorazione, negli ultimi 4 anni, dal 2021 ad oggi, ogni anno 1 ristorante su 100 ha chiuso. 12 su mille, quindi 1,2% nel 2024, dato peggiore di sempre.

La mia tesi, che approfondirò tra poco, è che non è in crisi il fine dining, è in crisi proprio il dining, anche quello casual o fast per rimanere negli inglesismi tanto cari agli studiati.

In mezzo a questa ecatombe, c’è qualche esponente di fascia alta? Certo. Ovvio. Come non potrebbe? 

Ma guardate che sui giornali si parla di crisi del fine dining e non di crisi di tutto il settore. Praticamente secondo molti giornalisti esiste una valanga selettiva. Una valanga che, cadendo a valle, porta solo con sé i detentori di Stelle Michelin, quelli con lo scontrino medio sopra ai 100€ e quelli che hanno in carta Salon e Selosse. Gli altri tutti salvi, in rifugio a bere bombardini. Gli stellati invece sotto la neve.

Boh, lo trovo assurdo. A me risulta incredibile come non facciano notizia tutte le altre decine di migliaia di attività di ristorazione che chiudono, ma questa è un’altra storia.

Il problema è che ora è “di moda” augurare le peggio cose al fine dining, per il semplice fatto che va “di moda” la sua antitesi: la cucina tradizionale, le trattorie e la cucina di nonna.

E così i media, gli esperti di settore e persino alcuni addetti ai lavori, che fino a ieri osannavano la cucina esperienziale e il virtuosismo tecnico, oggi cavalcano la nuova onda del ritorno alla sostanza. Ieri fumo, oggi arrosto. Ieri chef, oggi osti. Ieri ristorante pettinato, oggi trattoria.

Si tratta dell’ennesima tendenza destinata a mutare ancora nel tempo. Ciò che oggi viene presentato come la nuova verità assoluta è solo un altro ciclo che domani potrebbe lasciare spazio a un ulteriore cambiamento.

Si dice che il fine dining è in crisi perché i poteri d’acquisto degli italiani stanno diminuendo, perché non c’è più il revenge spending post-covid e via discorrendo. Tutte cose verissime, ne abbiamo già parlato, ma è anche vero il contrario, e cioé che che ricchi e gli ultra ricchi stanno aumentando.

Secondo l’ultimo Wealth Report di The Knight Frank, nel 2026 gli italiani che rientrano nell’HNWI (High Net Worth Individuals), ossia la popolazione che detiene un patrimonio finanziario superiore ai 2 milioni di dollari, saranno 3.032.538 (PIÙ DI 3 MILIONI!!!!)

Un aumento di circa 800mila persone rispetto all’HNWI registrato nel 2021, pari a 2.282.937 soggetti.

E persino più SUPER ricchi!

Gli italiani che rientrano nell’UHNWI (Ultra High Net Worth Individuals) quindi coloro che detengono un patrimonio finanziario superiore ai 30 milioni di dollari, passeranno da 17.359 a 19.730.

Interessante anche l’analisi sul Coefficiente di Gini è una misura statistica della disuguaglianza relativa ai redditi, descrive quanto omogenei o diseguali sono il reddito o la ricchezza sono distribuite tra la popolazione di un paese. 

Il coefficiente assume un valore tra 0 e 100%. Un coefficiente di Gini più elevato è associato ad una più elevata diseguaglianza. Il valore più alto nell’indice di Gini nel 2020 è stato registrato in Sud Africa, con il 62,73%, seguito da Namibia, al 59,17% e Zambia, al 58,09%

Quindi? Non è vero che il fine dining è in crisi?

Per me è tutta una questione di zoom. Mi spiego peggio.

Come continuo a dire da un po’, non è “crisi del fine dining” fino a quando non avremo dei numeri per dimostrarlo. Non credo alle valanghe selettive che portano con sé solo chi scontrina alto. Ma, ma, ma… è incontrovertibilmente vero che c’è una crisi ben più ampia, che è la “crisi della ristorazione”, ed è un trend che va avanti dal 2021. 

È tutta una questione di zoom: i giornalisti guardano solo il fine dining, non hanno occhi che per quello, quindi vedono che ne chiude qualcuno, guaiscono come lupi: “Crisi del Fine Dining!”

Facessero zoom out si renderebbero conto che stan chiudendo tutti, mica solo gli stellati!

Noi, che guardiamo tutto il settore nella completezza e abbiamo i dati per dire che no, non è chiudono solo gli stellati, ma chiudono TUTTI. 

In particolare, tutti gli improvvisati. E lo fanno facendosi malissimo. Inoltre, come diciamo da sempre, il mercato diventa sempre più difficile per tutti, anche per i bravi.

Il nostro settore è in una fase di GRANDE cambiamento. E come tutti i grandi cambiamenti, nessuno ne è esente, anche l’alta ristorazione, che dovrà re-inventarsi e ri-pensarsi da capo, specialmente quando non funziona.

Ma si continua a dare più valore alle singole casistiche che al quadro complessivo. 

Ora, Il problema non è mai stato il fine dining in sé, ma il modo in cui il concetto di “fine dining” è stato interpretato e, in alcuni casi, distorto. 

Infatti chiudono i locali che non hanno pensato a nutrire i propri ospiti e le loro esigenze, ma l’ego del titolare, dello chef o di entrambi. Possiamo dircelo senza fare i buonisti?

Il fine dining ha sempre avuto senso quando ha saputo far godere i propri clienti. Troppi format hanno puntato sullo spettacolo fine a se stesso, dimenticando che chi si siede a tavola vuole prima di tutto stare bene. 

L’effetto “wow” può stupire, ma se diventa fine a se stesso, è un esercizio di stile, e “The customer is not a moron. She’s your wife” diceva Ogilvy già nel 1955.

Il consumatore moderno è esigente, informato e soprattutto vuole sentirsi al centro dell’esperienza. Se sceglie di spendere cifre importanti per una cena, è disposto a farlo solo se ne ottiene un reale valore in cambio. Questo significa servizio impeccabile, personalizzazione, attenzione ai dettagli e una cucina che sappia emozionare senza diventare autoreferenziale e sì, diciamocelo, anche appagare l’appetito.

In sintesi, non è il fine dining ad essere in crisi, ma i ristoranti che hanno smesso di mettere il cliente al centro. I modelli che impongono menu prestabiliti, orari rigidi, tavoli comunitari e percorsi obbligati senza lasciare spazio alle esigenze individuali rischiano di perdere il loro pubblico. Lo ha già detto Raffaele Alajmo, ma lo riporto con parole mie: il cliente che vuole fare una bella figura con il socio in affari o con l’amante è disposto a pagare, ma solo se il ristorante gli permette di vivere l’esperienza che desidera, non quella imposta dallo chef.

Alla fine, l’unica cosa che distingue un ristorante e lo rende immune alle mode è la sua identità. Chi sa chi è, cosa fa e perché lo fa ha sempre un posto nel mercato. Non bisogna inseguire il trend del momento, ma costruire un concetto solido e coerente con la propria filosofia. Che si tratti di un ristorante stellato o di una trattoria autentica, il vero valore sta nella capacità di offrire un’esperienza autentica e memorabile.

Il fine dining non è morto. Sta semplicemente lasciando indietro chi non ha capito che l’unico elemento davvero insostituibile in un ristorante è il cliente.

 

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